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C’era una volta un libro

Quando si parla di comunicazione, quando si parla di fotografia, quando si parla di territorio, non si può non pensare all’editoria.

I libri sono stati per secoli, di fatto, gli unici depositari del sapere e della cultura, gli unici veicoli di memoria per storie, racconti, fantasie, informazioni.

Ora che di mezzi per raccontare ce ne sono moltissimi, multimediali e quasi universalmente accessibili, il libro può assumere un diverso significato, pur conservando un posto d’onore nelle nostre case e nei nostri cuori.

L’esperienza delle due pubblicazioni che Claudio Bru ha realizzato con Andrea Zanfi e la Salvietti e Barabuffi Editori, sono due esperienze di viaggio, prima di tutto. Di interpretazione del viaggio come racconto di emozioni, terre e prodotti tramite le parole e le immagini.

E questa strada stiamo sviluppando in Eblu: i nostri progetti in corso riproporranno questo modello di racconto, rivisto in chiave collaborativa, sociale, di condivisione.

Insomma, d’ora in avanti vi porteremo in viaggio con noi. Stay tuned. 😉

 

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Se il tuo vino è buono perchè non dovrebbe essere speciale

Fresca di visita al Vinitaly di Verona (che mi ha entusiasmato), completamente assorbita da nuovi progetti di comunicazione per aziende del settore, ho pensato di mettere nero su bianco una sintesi di quello che secondo la filosofia Eblu dovrebbe essere la concezione del marketing del vino.
“Il vino” ovvero tutto il settore enogastronomico è una delle ricchezze culturali ed economiche del nostro paese che, oltre ad alimentare una ricca filiera, contribuisce a completare quell’immagine del “bel paese” che l’Italia dovrebbe essere: cultura, storia, buon vino, buon cibo, belle donne e voglia di vivere. Forse la realtà dei fatti non è proprio così idilliaca, ma le tante aziende che alimentano questo segmento si trovano davanti alla meravigliosa opportunità di farsi promotrici di valori davvero unici per il nostro paese.
Come si fa il marketing del vino?
Stiamo parlando di un mercato solido, maturo e pieno di tradizione. Negli ultimi anni il livello qualitativo medio si è alzato tantissimo e, così come nella maggior parte dei settori, la qualità non rappresenta più un elemento di distinzione.
Mi confermano gli addetti ai lavori che è molto difficile ormai trovare vini “cattivi”. Mediamente le produzioni hanno un buon livello di base e la “battaglia” si gioca sul filo dell’eccellenza e delle tendenze del gusto.
Ciò significa che la qualità deve essere considerata solo il punto di partenza e non di arrivo. Il mio vino deve essere buono, ma essere buono non basta.
L’altra leva tipica del settore è la tradizione: si tende a utilizzare la tradizione e la storicità del marchio per promuovere le proprie produzioni, unite a valori “standard” della terra, del lavoro, della famiglia, del territorio.
Anche questo orientamento lascia un po’ il tempo che trova: è qualcosa che più o meno tutti possono dire e, salvo che non abbiate una storia veramente, veramente notevole o particolare, anche in questo caso sarà percepito come qualcosa di abbastanza comune tra i vari produttori, anche più noti.
E allora? Su cosa basiamo questo concetto di marketing del vino?
Noi crediamo fermamente che siano due gli elementi che devono stare alla base di una strategia di marketing enologico vincente:
Il primo elemento è la differenziazione.
Bisogna capire perché la nostra azienda è diversa dalle altre. Cosa abbiamo di diverso da offrire e, soprattutto da comunicare? Quale mondo possiamo ricreare, quali atmosfere, sogni o desideri possiamo evocare per riempire di significato e inferenze le nostre etichette?
 
Il secondo elemento è la relazione.
E questo merita qualche spiegazione in più: da chi compriamo noi? Da chi conosciamo. Di chi ci fidiamo? Di chi conosciamo, di coloro che ci hanno mostrato o dimostrato la loro affidabilità e coerenza. Noi scegliamo ciò che ci è noto, che ci è familiare, che non è troppo nuovo. E oggi il marketing relazionale, che tramite il web e i social network è diventato l’unica vera forma di marketing efficace, ci consente di diventare affini, quotidiani con il nostro mercato.
Prima di partire, quindi, a studiare la nostra strategia dovremo capire ed eventualmente creare dei criteri di differenziazione e delle piattaforme di relazione che ci consentano di fornire al nostro brand una community di seguaci (followers) che ci seguiranno e che giudicheranno e gusteranno il nostro prodotto ritrovandoci non solo la qualità, ma anche l’emozione che avremo saputo anticipare e preparare per loro.
E dopo? Che si fa?
Dopo si deve ragionare con la produzione i contenuti e la pianificazione di mezzi che tengano ben presenti i 4 gruppi di target principali che un’azienda vinicola dovrebbe curare:
i  consumatori finali, ovvero colui che dovrà portare (e gradire e testimoniare) il nostro vino sulla propria tavola, possibilmente ogni giorno
gli specialisti, ovvero quei consumatori speciali che sono riconosciuti come specialisti, che hanno la competenza di valutare il nostro prodotto in modo più specifico, e che  – in virtù della loro competenza – hanno il ruolo di “influencer” nel mercato, condizionando le scelte dei consumatori normali
i ristoratori, ovvero il secondo target di carattere professionale. Coloro che devono inserire i vostri vini nelle cantine dei propri ristoranti e, possibilmente, consigliarli ai propri avventori. A questi va fornita una storia, un’emozione che loro possano facilmente ritrasmettere e utilizzare per coinvolgere i propri clienti, diventando essi stessi testimonial e promotori del vostro marchio
i distributori, in particolar modo se decidete di esportare, i quali devono avere ben chiaro il lavoro che state facendo sui primi tre gruppi ed essere confortati del fatto che vanno a trattare un prodotto che presenta tutti i parametri di posizionamento di marketing più efficaci.
Ma basta diventare “social”?
No, diventare social non basta. I social media e il sito sono solo strumenti al servizio della nostra strategia e della nostra storia. Servono i contenuti sotto forma di idee innovative, di immagini evocative, di testi coinvolgenti e dopo serve la capacità di gestire i mezzi in modo da raggiungere nel modo giusto e nel momento giusto i 4 gruppi di target principali.
Serve avere la costanza di costruire la cosiddetta “brand awareness” ovvero la conoscenza del marchio nella nostra nicchia di riferimento, conoscenza che deve essere accompagnata da quel corredo di emozioni e di sogno che serve per agganciare l’attenzione del mercato e diventare memorabili.
E se è vero che i nostri sensi percepiscono gli stimoli e li elaborano a livello mentale e non solo fisico, ci accorgeremo presto che il nostro ottimo vino, se ben comunicato, sarà più buono.
Che se ne parlerà di più. E che le attività di marketing avranno avuto successo.
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Coincidenze notturne e parole manomesse

Divagazioni su libertà e parola

di Claudio Brufola

Facebook tra molti demeriti indubbiamente ha anche molti meriti, come l’istantaneità delle notizie o la possibilità di avere “amici” in ogni parte del mondo.

Questo è notevole, apre possibilità infinite di conoscenza: altre culture, altre tradizioni, altri fusi orari.

Tra le varie amicizie virtuali con cui scambio opinioni e pensieri c’è un ingegnere iracheno, una donna, credo di circa trentacinque anni, che mi ha descritto il suo Paese con immenso amore, facendomi apprezzare l’antica cultura persiana e mostrandomi la sua rabbia contro questo manto nero di proibizionismo e oscurantismo arabo estraneo alla loro civiltà. Del resto la Persia, oggi Iran, fu anche la culla della nostra civiltà, l’origine di noi europei.

L’Iran vive un’ imposizione religiosa e culturale, subita e forse in parte anche voluta dagli iracheni.

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Dunque una pseudo religiosità che pesa sulla quotidianità della gente ed in particolare delle donne, che si sentono schiave a casa loro e che subiscono l’imposizione di costumi non propri e di comportamenti restrittivi alla propria libertà sia di pensiero che di azione. Un passo indietro e contro la libertà femminile che vessata la rende succube alla delirante egemonia maschilista.

Prima di dormire sono solito leggere qualche pagina e avevo tra le mani “La manomissione delle Parole” del grande Gianrico Carofiglio che apre queste 146 pagine citando G.K. Chesterton:

“Le fiabe non dicono ai bambini che esistono i draghi: i bambini già sanno che esistono. Le fiabe dicono ai bambini che i draghi possono essere sconfitti.”

L’autore afferma che ” Le parole servono a comunicare e raccontare storie. Ma anche a produrre trasformazioni e cambiare la realtà. Quando se ne fa un uso sciatto e inconsapevole o se ne manipolano deliberatamente i significati, l’effetto è il logoramento e la perdita di senso”.

Egli prende in modo arbitrario alcune parole per gioco, come vergogna, giustizia, ribellione e bellezza lasciando per ultima quella che esprime la più umana, pericolosa, nobile ed eroica fra le dimensioni umane: scelta.

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Ecco, immediatamente al solo leggere questa parola mi sovviene l’ultima discussione sul ruolo delle donne in Iran e in tante altre parti del mondo, poi rifletto sul fatto che ha numerosi sinonimi e nessun contrario.

Dire, o raccontare, e scegliere sono azioni che hanno una similitudine straordinaria, come la parola definisce il mondo cosi la nostra scelta lo cambia.

Dovremmo poter tutti scegliere come nascere, come vivere e morire. “Le politiche della paura, le culture dell’esclusione, etnica, culturale, sociale e della sopraffazione mascherate sotto il velo di principi etici e religiosi o di fittizie identità nazionali contraddicono quella stessa idea di libertà cui a volte dicono di ispirarsi. Esse violano il principio dell’autonomie delle persone, intese come soggetti capaci di scegliere, e naturalmente titolari del diritto di scegliere.”

Volendo definire scelta attraverso i suoi contrari direi che scelta è il contrario di rinuncia, di conformismo, di vigliaccheria, di vergogna, di indifferenza.

Fate la vostra scelta.

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Le foto a corredo di questo articolo sono state scattate nel 2008 ad Algeri.

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La “Voglia d’amare” racchiusa in un mini set fotografico.

La “Voglia d’amare” racchiusa in un mini set fotografico.

Il punto di vista del fotografo del nostro evento di San Valentino
di Claudio Brufola

(il punto di vista di marketing è qui)

Quale migliore location per far vivere o rivivere momenti d’amore, che Parigi. Dunque lo sfondo per collocare la voglia d’amare è stato lo skyline della città di Parigi che si vede dal Trocadéro, immagine icona per molte jeunes couples mariés” in luna di miele.

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L’amore. Declinato nelle sue molteplici forme è entrato e l’ho fotografato nel punto vendita di Saronno dell’Ottica Bergamini.

Nel 1951 Genemore Bergamini inizia la sua attività, è un momento importante per la storia di Saronno, della Lombardia e del nostro paese. E con tutto l’entusiasmo di quel tempo costruisce la sua impresa, fondata sulle sue capacità professionali, sull’affezione al lavoro e sulla precisa convinzione che l’ottico dovesse mettersi al servizio delle persone, aiutandole a vedere meglio e sentirsi meglio.

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Una giornata speciale, una giornata densa di passione e gioia, è stata quella del 14 Febbraio appena trascorsa, dedicata all’amore e agli innamorati del mondo.

Durante questo shooting sono apparse ai miei occhi le molte e varie “categorie” d’amore, quella tra una donna e un uomo, quella per se stessi, quella per un figlio o un genitore, quella per il proprio animale e quella per il proprio amico; gli amori che rendono la vita bella e aiutano a superare momenti difficili o di solitudine.

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Non servono molte parole per intendere l’amore, ma voglio citare chi dell’amore ne ha compreso il senso, come Osho che nel suo “The Sound of Silence, the Diamond in the Lotus”, ne definisce l’aspetto fondamentale.

“L’amore è il nutrimento. Ma l’umanità è stata così confusa dai suoi leader che non conosciamo i regni più nascosti del nostro stesso essere. L’amore è di per se stesso nutrimento. Più ami e più troverai spazi in cui l’amore si espande sempre più intorno a te come un’aura.

Ma quel tipo di amore non è stato permesso da nessuna cultura. Hanno forzato l’amore in un tunnel molto stretto: tu puoi amare tua moglie, tua moglie può amare te; puoi amare i tuoi figli, puoi amare i tuoi genitori, puoi amare i tuoi amici. E hanno fatto sì che due cose si radicassero profondamente in ogni essere umano. Una è che l’amore è qualcosa di molto limitato – amici, famiglia, figli, marito, moglie. E la seconda cosa su cui hanno insistito è che ci sono molti tipi di amore. Ami in una maniera quando ami tuo marito o tua moglie; poi devi usare un altro tipo d’amore quando ami i tuoi figli, e un altro tipo di amore quando ami i tuoi antenati, la tua famiglia, i tuoi insegnanti, e poi un altro tipo di amore per i tuoi amici. Ma la verità è che l’amore non può essere categorizzato nella maniera in cui è stato categorizzato in tutta la storia dell’umanità. Avevano delle ragioni per categorizzarlo, ma le loro ragioni sono brutte e inumane, perché con questa categorizzazione hanno ucciso l’amore…

La ragione per cui tutte le culture hanno insistito sulla categorizzazione è che hanno avuto molta paura dell’amore, perché se nell’esistenza c’è l’amore, esso non conosce confini. E allora non puoi mettere gli indù contro i mussulmani, e non puoi mettere i protestanti contro i cattolici. E non puoi tracciare una linea dicendo che non puoi amare questa persona perché è ebrea, cinese. I leader del mondo volevano dividere il mondo, ma per dividere il mondo hanno dovuto fare una divisione fondamentale, cioè la divisione dell’amore.”

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C’era una volta il cuoco

di Alessandra Salimbene (The Personal Branding Coach)

A quanto pare il cambiamento è il vero tema fondante la nostra epoca. In ogni ambito (marketing, comunicazione, economia…) il concetto darwiniano di capacità di adattamento a un mondo in continua evoluzione è la base fondante per chi vuole sopravvivere e prosperare in questo mondo 3.0.
Questo tema riguarda tutti, ma in particolar modo gli ambiti professionali che, tutto d’un tratto, si trovano a essere scomodi protagonisti del circo mediatico.

[caption id="attachment_2717" align="alignnone" width="1701"]Nazario e Lucia Biscotti e - Ristorante Le antiche sere - Lesina (FG) Nazario Biscotti e Lucia Schiavone e – Ristorante Le antiche sere – Lesina (FG)[/caption]

Nel mondo dell’enogastronomia questa sorte tocca, pesantemente, la figura dello chef, salito all’onore dei palcoscenici VIP grazie alle varie trasmissioni televisive della famiglia Masterchef e ai personaggi che si sono creati intorno. Cosa è cambiato con questa metamorfosi?
Molte cose. E molte cose simili agli altri ambiti professionali.
Ad esempio, si è “massificata” una sorta di cultura (presunta) della cucina. Tutti si pensano grandi chef o grandi degustatori solo perché seguono trasmissioni televisive, blog e video Youtube.
Gli chef non sono più cuochi, più o meno capaci, ma sono personaggi. Devono avere un’immagine, devono comunicare, devono inventare.
In generale, questa figura è entrata nell’immaginario collettivo come una figura patinata e un po’ mitica, una posizione di privilegio a cui ambire. Con tutto ciò che ne consegue: a partire dalle improbabili patatine in busta raccomandate da Cracco, passando da Bastianich che canta “Quando Quando” a Sanremo e pubblicizza la sfoglia pronta, fino ad arrivare alle decine di corsi che in tempi più o meno rapidi ti promettono di entrare nel firmamento delle grandi cucine.

Ma dov’è la verità? E quali opportunità ci sono per l’enogastronomia, per i veri chef, per il nostro paese che di questa cultura enogastronomica dovrebbe fare tesoro?

[caption id="attachment_2715" align="alignnone" width="4256"]nazario_lucia_5207 Nazario Biscotti e Lucia Schiavone e – Ristorante Le antiche sere – Lesina (FG)[/caption]

 

La verità è che il lavoro dello chef è un lavoro duro che richiede competenza, studio, passione e grande applicazione per essere svolto con successo. La componente creativa e romantica deve fare i conti ogni giorno con orari molto pesanti e con un’attività che di per sé è impegnativa dal punto di vista sociale (generalmente si lavora quando gli altri si divertono) e fisico.

Come molte professioni è però un campo alimentato dalla passione e, si sa, quando il lavoro è passione le difficoltà si affrontano con un altro spirito. I fenomeni cui ho accennato prima hanno complicato un po’ le cose, perché la massificazione crea sempre scompiglio all’inizio, ma nello stesso tempo ha creato ambiti di opportunità. Se è vero che si sono moltiplicati i “concorrenti”, per così dire, è vero anche che si è sviluppata comunque una certa sensibilità al ruolo, una ricerca di qualità, un desiderio di un’esperienza culinaria un po’ più ricercata e gratificante.

Anche per lo chef, quindi, si presenta l’opportunità di cavalcare un cambiamento e comprendere come non basti restare in cucina a creare per ottenere successo. Come tutti i professionisti bisogna mettersi in gioco e diventare un po’ personaggi, sempre di più mettendo la propria faccia al servizio della propria insegna.

In questa ricerca spasmodica di valore, di differenziazione, di unicità le persone amano avere l’illusione di essere messi a parte di un segreto, di un’esperienza unica, co-protagonisti di una storia. E per questo amano e si affezionano e saranno disponibili a fare chilometri per assaggiare il piatto creato da quello chef che ce l’ha raccontato così bene, che magari ha anche un bel sorriso, ma che soprattutto è entrato nella conversazione e ha saputo trasmetterci l’idea, il percorso che lo ha portato fino a lì.

Quindi… c’era una volta il cuoco e oggi c’è lo chef. Che abbia qualcosa da dire, che sappia comunicare, che abbia voglia di uscire dalla cucina per farci vedere che sa sorridere e che è capace di raccontarsi. Tutto in piena coerenza con un meccanismo mediatico che va sempre più la valorizzazione dei talenti dei singoli, delle persone, e sempre meno appresso ai grandi marchi.

Sono conversazioni. E le conversazioni si fanno tra persone.

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“Con la cultura non si mangia”

“Con la cultura non si mangia”
Malauguratamente con questa infelice frase un politico stilò chiaramente il profilo mentale di molti italiani.

Ebbene si, molti italiani ne sono convinti e lo credono ed in questa categoria purtroppo entrano in bella compagnia, anche molti “fotografi” o aspiranti tali, che per loro formazione ignorano alcuni presupposti che compongono e danno la maturità professionale in ogni mestiere, che si vorrebbe invece ottenere con scorciatoie comode e alla portata di tutti, con facilità cognitive, con assenza di pensiero, con metodi replicanti, con guardare per copiare, con “workshop take away”.

Di “campus” di “academy” di “on the road” e di simili lodevoli iniziative ormai se ne contano centinaia, la maggior parte con evidenti e precise finalità prettamente commerciali spesso mascherate o addolcite da marketing casareccio e da un circo mediatico che confonde e fa breccia sulle molte “anime belle” che vorrebbero conquistarsi l’ambito appellativo di “photographer” senza alcuno sforzo mnemonico adeguato, come specchi magici, che attirano competenza, stile, creatività che poi avrebbero acquisito una volta tornati umani, ma avendo tra le mani solo giocattoli costosi e nella mente poco o niente.

Generalmente siamo soliti non ricordare le nostre radici, i nostri trascorsi, che danno invece gli strumenti e la giusta misura per capire e confrontare le varie tipologie di offerte commerciali, per avere raziocinio, per avere capacità di scelta sul mercato dei bisogni professionali e su i percorsi di aggiornamento professionale. Stranamente mi sorprendo ancora osservando tanti “operatori fotografici”, che ignorano semplici meccanismi da “televendita” convogliati e indirizzati in “tritatutto fotografici” che prescindono dalla esigenza primaria che un fotografo dovrebbe avere: la cultura.

Del resto se fossimo coscienti di questo concetto “terra-terra” non ci sarebbe questa proliferazione di “personal trainer” che conducendoti per mano ti fa raggiungere in pochi e semplici passi “l’eccellenza fotografica”. Costruire da zero il tuo approccio alla professione semplicemente entrando nel “team”, ma che bella cosa sarebbe.

Anni or sono, quando il fotografo ebbe chiaro di essere un soggetto economico attivo, quando la sua coscienza rivelò che dovesse essere un protagonista, quando vera formazione e informazione gli diede autorevolezza per divenire un interlocutore con le aziende che si nutrono della sua passione e del suo lavoro, iniziò un decennio di collaborazione, di sperimentazione, di lotta all’ignoranza, di affermazione della cultura e della qualità in un “mercato” selvaggio in una professione tutta “self made”.

Furono anni utili alla cultura fotografica, alla professione fotografica e alle aziende di prodotti fotografici, che crebbero anch’esse come coscienza sociale, esperienza imprenditoriale formando, con questa contaminazione, i loro dipendenti e la loro forza vendita, trasformando alcuni di loro da semplici rivenditori di materiali fotografici ad “allenatori personali “.

Questo connubio fece maturare esperienze di uomini e aziende, attraverso format allora innovativi che vengono ancora oggi usati e abusati, in veste decisamente poco innovativa adattandoli, alla meno peggio, ai giorni che viviamo, che sono giorni difficili per tutti.

In questa crisi generale che vede le aziende tagliare investimenti e risorse a causa di un grave restringimento delle vendite, anche il settore della fotografia è in profonda crisi, mostrando numeri preoccupanti che assottigliano sempre di più margini di profitto.

I ricorsi storici, vedono atteggiamenti spesso inefficaci che raschiano il barile vuoto di idee, un inutile film fuori contesto, un contrapporsi al nulla. Se è vero, come diceva Einstein che la crisi economica può essere una grande bene­di­zione per le per­sone per­ché la crisi porta pro­gressi, non si deve però pretendere che le cose cam­bino se con­ti­nuiamo poi a fare le stesse cose; sarebbe sempre minestra riscaldata.

Signori, in questo modo non si costruisce nessun futuro solido ne per la professione fotografica, ne per le vostre aziende e ne per i vostri futuri clienti, che rimarranno a livelli non competitivi con il resto del mondo, in particolare con i fotografi dei Paesi emergenti.

E qui la faciloneria dovrebbe cedere il passo all’inventiva.

Pensiamo ancora che stare a guardare un “fessacchiotto” passatemi il termine, che scatta foto ad una “modella” o ad una falsa coppia di sposi possa essere utile a qualcuno e indicarci una via giusta verso nuove professionalità richieste per riposizionare l’intero comparto fotografico?

Non sarebbe meglio e utile, spendere il proprio tempo a ricercare nuove idee, attivare confronti su nuovi contenuti e nuove forme espressive per acquisire un proprio stile professionale ? Non sarebbe meglio e utile, investire in ricerca e studiare i meccanismi che coinvolgono la comunicazione visiva con linguaggi e strumenti moderni per nuove forme di promozione personale ?

Capisco che la filosofia aziendale del profitto non può attendere e deve fare utili tutti i giorni, ma una maggiore consapevolezza e una decisa riflessione sull’utilità anche sociale di figure professionali consapevoli e preparate, può essere nel tempo una ricchezza e una rinascita per questo settore che sta regredendo paurosamente.

La fotografia ha subito nell’ultimo ventennio una serie di rivoluzioni e grandi cambiamenti nel modo di intendere la professione, portando a una crisi diffusa delle attività impostate in modo tradizionale. L’avvento del digitale, poi la diffusione di strumenti “ibridi” per la fotografia come smartphone e infine i social media, hanno reso la fotografia accessibile alla massa, modificando i gusti, le abitudini e le possibilità di condivisione, trasmutandone perfino la funzione sociale.

Un panorama apparentemente apocalittico può nascondere anche grandi opportunità, per chi ha la capacità di ripensarsi e cambiare prospettiva.

Se è vero che la fotografia è diventata “di tutti” è vero anche che il mercato dei potenziali estimatori della fotografia professionale si è moltiplicato.

Se è vero che c’è immagine ovunque è vero anche che si sono moltiplicati i canali tramite il quale un bravo professionista può esprimersi.

Forse sarebbe il caso di rivedere alcune priorità e ascoltare la propria coscienza di formatori, dando risposte serie a reali richieste di apprendimento, di conoscenza, di cultura.

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Marketing digitale e identità visiva: le immagini sono contenuto.

di Alessandra Salimbene

Sembra che le aziende abbiano finalmente capito che senza un’attività di comunicazione e marketing non si può vivere e che, ormai, il marketing digitale – ovvero quello veicolato tramite il web, la posta elettronica, i social media – debba essere considerato il centro di ogni attività di comunicazione e promozione aziendale.

In questo orientamento ormai universalmente condiviso, si fa strada anche il concetto per il quale la miglior leva di creazione di valore on line sia proprio la pubblicazione di contenuti validi e originali on line. La logica della rete è quella della condivisione: io ti trasmetto la mia conoscenza, ti do qualcosa di utile (significativo, emozionante) e contemporaneamente tu inizi a conoscermi, a diventare mio amico. Il percorso logico è piuttosto semplice: se quel che mi dai è valido e coerente con ciò che proponi diventerai per me punto di riferimento della tua nicchia e quando avrò bisogno del tuo prodotto / servizio mi rivolgerò a te.

Va da sé, quindi, che per l’azienda che vuole avere una presenza on line efficace sia fondamentale iniziare a pensarsi come azienda editoriale, in grado di comunicare con contenuti validi ed efficaci le proprie competenze e, soprattutto, la propria personalità e la propria storia.

Ciò che va raccontato, infatti, non sono soltanto dati, approfondimenti e informazioni riguardanti prodotti e servizi. Le persone vanno coinvolte, emozionate e le persone vogliono sapere chi siamo, parlare con altre persone, sapere perché e come siamo arrivati dove siamo e come abbiamo costruito l’offerta che stiamo proponendo. E’ la nostra storia che ci rende diversi, e questo va raccontato.

Ma raccontare, on line, non significa solo parole: i mezzi digitali sono per definizione multimediali e la prima forma di multimedialità, la più efficace e fruibile, quella che arriva immediatamente all’obiettivo è proprio l’unione fra testo e immagine.

L’immagine ci consente di raccontare istantaneamente qualcosa: un pezzo della nostra storia, un luogo, un colore. Con l’atteggiamento stesso del nostro corpo possiamo ispirare istantaneamente fiducia o sospetto. L’immagine, abbinata alle parole, ci consente di raccontare storie, trasmettere emozioni e, soprattutto, diventare memorabili.

Fenomeni come le infografiche (schemi sintetici che uniscono dati e statistiche in riquadri grafici e illustrati) o i cosiddetti meme (le citazioni accompagnate da fotografie, che vengono condivisi spesso sui social) sono sintomo di questa esigenza, costante, di arricchire e rendere più rapida la trasmissione del contenuto quando si comunica on line.

L’immagine ha il compito di attirare, di contestualizzare, di identificare l’autore o il tema del contenuto stesso e di renderlo memorabile. Il testo può completare e scendere nei dettagli.

Fotografia corporate e reputazione aziendale.

La fotografia aiuta ad aumentare la reputazione di una azienda? Se l’azienda tiene alla sua reputazione, si. Se l’azienda ha una reputazione, si. Se l’azienda ha persone che capiscono questo concetto, si.

Tutte le imprese utilizzano lo strumento di comunicazione  per immagini o visual communication, ma non tutte hanno la capacità  di portare risultati o lo fanno in modo efficace, alcune in modo inconsapevole, altre in modo decisamente errato.

La fotografia riproduce l’immagine del mondo declinandola in diversi modi con forza e violenza o con pacata delicatezza usando il gioco di chiaroscuri, come i pittori sanno fare, ma in modo ancora più approfondito.

Con l’immagine fotografica possiamo modificare la realtà o anche renderla migliore. Il linguaggio forte  che la fotografia ha non è quello descrittivo, ma evocativo. Una sola immagine, può raccontare anni di vita, storie di generazioni future. La capacità narrativa della fotografia ha efficacia comunicativa incredibile, che spesso supera la stessa parola scritta attribuendo ad essa un valore aggiunto e nel migliore dei casi sostituendosi ad esse.
Il potere contenuto in una foto, già notevole di per sé, nell’era del web odierno nel quale i contenuti sono infiniti e immediatamente disponibili, risulta addirittura amplificato, perché un’immagine lascia il segno e può più di mille parole scritte e non lette o scorse distrattamente, senza residui nella mente.

Velocità e poco tempo per l’informazione ci impongono che la percezione del messaggio deve essere immediato. Trasmettere sensazioni, concetti, stili di vita, prima di semplici dati che richiedono analisi e tempo a disposizione. Il ruolo dell’immagine è anche questo, cogliere mnemonicamente infiniti messaggi che come milioni di bit formano poi i concetti che fissiamo nella nostra coscienza visiva a supporto di idee e di ricordi o di speranze e sogni. La comunicazione di massa si fa con le immagini non con le parole.

La comunicazione è  sempre più in rete, la rete vuole trasparenza,  e cosa hai da mostrare se non la tua faccia ? Dunque pensa a come mostrare al meglio la tua faccia.

Una fotografia di qualità indirizza l’attenzione di chi osserva sul messaggio che l’autore intende comunicare, rafforzandone al tempo stesso la potenza espressiva e le potenzialità di diffusione virale. Il suo decente utilizzo nella comunicazione è indispensabile. Nella comunicazione aziendale non si può prescindere da questo strumento efficace e potente: l’immagine illustra l’identità di un’azienda, fondamentale per la sua comunicazione esterna, ne supporta la reputazione, ne fissa i canoni, ne esalta le qualità.

L’identità aziendale è ovviamente anche visiva e la fotografia ne è conferma e riassunto contemporaneamente, di ciò che l’azienda rappresenta ed è, il suo biglietto da visita e il luogo di riconoscimento, il post nella memoria del cliente.
Per cui la fotografia corporate deve trasmettere al meglio coerenza, uniformità, riconoscibilità di quella azienda .
La fotografia corporate è il marcatore visivo dell’azienda, l’immagine corporate trasmette i valori dell’azienda, ne descrive la mission e ne esalta la reputazione raccontandone la strategia, con un messaggio “trasparente” per tutti coloro che la vogliono conoscere.

Per cui affidarsi ad una fotografia di qualità è doveroso per un’azienda che vuole essere riconosciuta come positiva, trasparente, affidabile o semplicemente farsi “ricordare” e che voglia affermare, da leader,  la sua esistenza in mercati sempre più veloci e digitali.
La collaborazione con esperti fotografi e specialisti dell’immagine per la comunicazione aziendale è un investimento imprescindibile per un’azienda 3.0.

Il linguaggio universale nell’era della globalizzazione sono le immagini, le fotografie sanno farsi capire, parlano a tutti, a prescindere dalla lingua, dalla razza, dai luoghi.

Nell’attuale panorama della comunicazione il considerare la fotografia come elemento secondario o peggio quale orpello comunicativo non è solo un errore di strategia o di interpretazione, è un errore simile a quello che potrebbe compiere una specie che non si evolve, è un errore genetico, una involuzione della “specie aziendale”.

Le parole anche in questo contesto servono a ben poco, solo un’immagine racconta la sua potenza comunicativa in modo efficace. Provare per credere.

 

 

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Fotografia, tra arte e comunicazione

È vero, un’immagine vale mille parole.

Tocchiamo con mano tutti i giorni sui social network l’importanza che rivestono la fotografia, l’immagine nella comunicazione.

I numeri di quante fotografie vengono postate su i social network sono impressionanti, ma a guardare bene sono solo bit sparsi che poco hanno a che fare con la cultura fotografica, con racconti fotografici, con espressione artistica.

La fotografia è un modo di rappresentare o evocare aspetti della vita, uno stile di pensiero, una disciplina tra arte e comunicazione adatta per interpretare il mondo che ti circonda, pieno di verità e di menzogne, come la fotografia stessa. Molto si potrebbe aggiungere nel declinare questa disciplina sia in forma artistica che come semplice professione.Vero è che, per comunicare con efficacia, l’immagine non può essere decorativa e va scelta con cura, deve essere rilevante, esplicativa, evocativa e soprattutto catturare l’attenzione.

L’attenzione poi potremmo spostarla sul tema di come utilizzare la fotografia, un uso dell’immagine in modo diverso dai tradizionali stili, deve essere nei pensieri e nella pratica di chi cerca nuovi modi di comunicare, nuovi modi di trasmettere informazioni importanti, soprattutto che lascino il segno.

Fotografare significa appropriarsi della cosa che si fotografa. Significa stabilire con il mondo una relazione particolare che dà una sensazione di conoscenza, e quindi di potere“, diceva Susan Sontag, nulla di più esatto parlando di conoscenza, perché sapere è anche potere.

Di citazione in citazione, per porre attenzione su altro aspetto che aiuta a capire cosa vi sia nelle categorie fotografiche, viene bene ricordare ciò cha Adams concentrava in una semplice espressione, “Ho sempre pensato che la fotografia sia come una barzelletta: se la devi spiegare non è venuta bene“. Qui cogliamo un concentrato della questione che è a monte di discussioni attuali su ruolo ed il significato di fotografia. Esistono ancora pubblicazioni che, non per individuare le date di realizzazione, ma per semplice ignoranza nel saper leggere un’immagine, appongono una bella e forbita didascalia sotto sminuendo così la carica creativa e artistica di una immagine. Mai visto una mostra di pittura dove sotto un quadro ci sia la spiegazione critica dell’opera, segno che ancora l’espressione fotografica appartenga alle arti minori a detta di molti, non considerando che recentemente la fotografia è entrata prepotentemente nei santuari della vendita all’asta di patrimoni artistici come Sothesby’s; basta vedere le quotazioni della stampa di Edward Weston’s “Two Schells” venduta la scorsa primavera per la cifra di 533.000 dollari.

“In fondo la fotografia è un modo più sbrigativo per fare una scultura” affermava Robert Mapplethorpe la cui mostra “La perfezione nella Forma” fu esposta a Firenze nel 2009 nella galleria dell’Accademia, accostando queste opere ai capolavori di Michelangelo.

Ma questa è un’altra storia.